IL MODELLO EMILIANO CHE MOLTI EMILIANI HANNO SCORDATO
di Pierantonio Muzzetto
Nel pieno degli ozi del 25 aprile, lavorati, come si conviene nobilitandoli, dapprima da buon cincinnato sul green “breve” intorno alla casa, poi cogliendone l’aspetto più dotto, si è passati alla lettura. Invero pensata sufficientemente dotta, anche se trattasi della lettura dei quotidiani, semmai qualcosa di dotto vi sia di questi tempi sui giornali. Dopo la corposa analisi politica e le osservazioni dei vari attori-comparse parlamentari, una volta aperto poi il settimanale allegato al “Corriere” s’incappa in una scivolata culturale, troppo rumorosa per essere un semplice refuso. A pagina 25, sotto un titolo importante “Lezioni da Tavola”, era pubblicata una delle opere di Caravaggio, il Bacco, con didascalia: il Bacco di Michelangelo… Forte lo stupore perlomeno per la mancanza di un’efficace correzione di bozze, non mitigata dal pensare che magari in queste ristrettezze ne possano aver fatto a meno con effetti evidenti, continuando a sfogliare quella rivista patinata una rubrica, “Appunti di economia”, tenuta da Dario de Vico ha attirato l’attenzione. Soprattutto per il titolo dell’articolo che non poteva certo passare inosservato e non attrarre l’attenzione per l’argomento: <Perché l’Emilia non è più rossa>. Sebbene brevemente, ma non meno efficacemente, si faceva una disamina storica, evidenziando il privilegio della gente emiliana, conquistato meritatamente sul campo per le capacità indubbie: ne esplicitava lo sviluppo di un “alto capitale sociale”, conseguenza di una politica che nel tempo ha portato al miglioramento dei servizi e cha ha prodotto un alto consenso interno e altrettanto al suo esterno. Col mutare dei tempi non si può non notare un’involuzione di metodi e principi ampiamente riconosciuti ma che localmente ha dato espressione ad una protesta, per lo meno politica, a fronte di una caduta delle idealità “alte” e di concretezza, e che ha dimostrato una “mancanza di circolazione dell’élite”, dimostrando una chiusura, diversamente da quell’apertura che ci si sarebbe aspettati, quale concreta manifestazione di una volontà di risoluzione dei grossi problemi in cui si dibatte la popolazione dell’operosa Emilia. Partendo dall’analisi dei fatti e delle situazioni dei nostri giorni avrebbe trovato giustificazione quel viraggio dei consensi in ambito politico che, pur di rivalsa, non si può misconoscere che sia mancato quel rinnovamento, che è principio e necessità per lo sviluppo, che passa attraverso proprio “la liberalizzazione delle élite, in cui lo stock del patrimonio culturale non garantisce i flussi di pensiero”. Come naturale conseguenza le capacità rimangano sopite, inespresse e i problemi impigliati in una magma gelatinosa nel nome del lassez fair. Un ragionamento che appare semplice ma per certo verso ma di difficile attuazione. Ma non può sfuggire che la capacità analitica dei problemi è pur sempre alta, caratteristica comune dell’intera popolazione italiana, ma si assiste nel quotidiano alla perpetuazione di un sistema che procrastina all’infinito: pur se si ragioni su tutto e su tutto, e su tutti si discuta, i problemi restano insoluti. Grandi analisi e grandi teorie per lasciare che tutto rimanga com’è. Così i problemi che ci sono e che quotidianamente ci assalgono, rimangono insoluti e, di contro, accresciuti. In un oblio che tutto aggiusta. In tutti i campi: sociale, economico e ancor più sanitario. Non si può essere d’accordo con quest’inedia sfascista. Una menzione merita quell’èlite di cui si parla e che è presente e consapevole; che potrebbe essere capace di contribuire positivamente all’inversione di rotta ma per volontà di illustri personaggi rimane nella condizione di minoranza votata al silenzio e inascoltata, sommersa dalla moltitudine immobile o bradipica che, nel nome della convenienza, tutto controlla. Il contrario quel decantato fu-modello emiliano, scordato da molti emiliani, a Bologna come a Parma. Ora l’élite è cambiata, in tutti gli ambiti come in ambito sanitario. Ma non è, a ben vedere, quella buona.