La sanità malata necessita d’interventi. Le cause e i rimedi
Intervista al Presidente Pierantonio Muzzetto
Le novelle legislative ultime, dalla Responsabilità, alle Dat e al riordino degli Ordini hanno segnato la linea Maginot della professione medica, attaccata da più parti e sacrificata sull’altare del “tutti insieme appassionatamente”, uniti nel task shifting, confusi nelle competenze più avanzate in altri ruoli, dal verbo regionale e dalle argomentazioni dei postulatori del cambiamento.
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Quello pubblicato su Quotidiano Sanità, a seguito delle affermazioni dell’amico Ivan Cavicchi, è un ragionamento complesso e forse non facile. Scritto per ribadire il concetto che il codice deontologico non possa prescindere dai valori dell’etica della professione, in cui lo snodo cruciale sia la necessità di non sovvertire, o amplificare, concetti che possano snaturare proprio l’essere medico. È fondamentale che il medico debba avere come stella polare il bene della persona affidata, interpretando e vivendo il concetto etico filosofico della beneficialità del paziente, quest’ultimo inteso come persona che soffre. Termine che di per sè esprime i suoi diritti e doveri, e che rispecchia il vero l’aspetto della sofferenza e del bisogno, cui il medico si avvicina per lenire le sofferenze col controllo della malattia. In realtà, al medico che professa eticamente non occorono tante definizioni né modifiche semantiche; ma un passaggio non può non preoccupare: allorquando si consideri l’impegno come requisito essenziale dell’agire professionale indiscriminato cui si associa un’autonomia, che supera i concetti di ruoli e competenze. Risulta non sostenibile che l’impegno possa da solo garantire l’autonomia, giustificando il superamento delle peculiarità frutto di formazione specifica. Senza prevedere, cioè, la diversità delle competenze che si coniuga con gradualità e con armonia degli interventi, che non può prescindere dal bilanciamento dei ruoli e dal rispetto delle competenze specifiche. Non è solo per una questione di leadership, ma attraverso la gestione delle responsabilità derivata dalle perìculiarità e dalle posizioni lavorative si può adire alla garanzia del risultato, con la "barra a dritta” verso il bene dell’ammalato. In sintonia con tradizione e storia plurimillenaria. Non si possono disconoscere alcuni “punti fermi” della professione dichiarati imprescindibili: rispetto, collaborazione, che sono alla base del vivere di ogni professione e a maggior ragione per quella medica, che è una professione “alta”. La considerazione di fondo è che questa sia un’epoca che, rubando la definizione ai sociologi, si potrebbe definire della “babelizzazione” dei saperi, in contrapposizione al “meticciato” sempre dei saperi. Che, tradotto, significa: incomunicabilità contrapposta a integrazione. La prima - l’incomunicabilità - è giustificata dalla dichiarata autonomia delle varie figure presenti all’interno del sistema, invocata in base al concetto d’impegno e all’idea del saper fare, e che viene contrapposta alla seconda - l’integrazione - che sempre più risulta essere un termine largamente usato, forse abusato, e sicuramente sproporzionato. Anche se sia considerato un termine modaiolo e politicamente corretto.
Quello che, infatti, è ritenuto il punto fondamentale del disagio della professione medica e del continuo metterla “ingiustamente” in discussione nella società “moderna” è, da un lato, il peso attribuito “ai valori” e, dall’altro, proprio quell’incomunicabilità che si vede crescere esponenzialmente non solo all’interno della classe medica, ma anche fra questa e le professioni sanitarie e anche fra classe medica e politica, non solo sanitaria. Questo è il terreno su cui agire, portando modifiche sostanziali nei rapporti ricondotti nell’alveo della professione in generale. Non sottostando alla politica o a certa economia. Rivendicando per la salute quel ruolo che le competa, e che, sebbene abbia un costo, non può essere solo una voce di spesa del bilancio dello Stato – nella legge di stabilità - ampliandone il valore; perseguendo il benessere della società, in ottica aziendale, sarebbe così un vero indicatore di produttività. Un benessere che è termine non soltanto etico-filosofico o sociale - conetico e consociale con neologismi, da sottoporre al vaglio della Crusca - ma con aspetti di chiaro effetto economico, sicuramente positivo. E la positività risiede nel fatto che l’abbreviazione dei tempi di recupero costituisca un risparmio in una dinamica produttiva, in grado di determinare un utile, una fruttuosità, conseguente al precoce reinserimento del paziente nelle dinamiche del lavoro. In conclusione, proseguendo nel ragionamento, si arriva alla constatazione che, come medici, non si sia disposti ad abdicare dal ruolo di gestori della salute; come anche sia per certo verso “forzato” il significato attribuito al paziente nel definirlo “persona assistita”, come garanzia riconosciuta di considerazione e di sublimazione del diritto o di indiscussa e altrettanto riconosiuta dignità. In conclusione, per dirla con Cavicchi, ripensare all’agente suona piuttosto come esigenza di riconoscere i valori di chi cura e chi sia curato, vedendo il bene salute inscindibile dal paziente, quale espressione etica del professare medico. A cui si deve la responsabilità del coordinamento nell’armonico susseguirsi degli interventi assistenziali, secondo una regoletta molto semplice che ha alla base il rispetto e la collaborazione, ma che rivendica a sua volta il rispetto verso il peculiare agire del medico. Forti nell’esigere quel risultato che trova nel riconoscimento delle responsabilità di scala uno dei valori “non negoziabili” della professione medica.
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